“Che cos’è il bullismo? Ne sentiamo spesso parlare, ma lo conosciamo veramente?”

“Che cos’è il bullismo? Ne sentiamo spesso parlare, ma lo conosciamo veramente?”

20 Aprile 2025 Off Di Redazione

Che cos’è il bullismo? Ne sentiamo spesso parlare, ma lo conosciamo veramente? A volte i termini vengono utilizzati in maniera inappropriata, il rischio è di generare confusione e sollecitare azioni inadeguate.

Il bullismo è un fenomeno complesso che risponde a determinati requisiti affinché episodi di violenza possano rientrare nella fattispecie. È già detto, il bullismo è un atto di violenza e questa può assumere tante facce, c’è una violenza fisica, psicologica, verbale, economica, istituzionale, mediatica… Non va confusa però con il conflitto, il sale delle nostre vite, che talvolta può assumere connotazioni degradanti e violente, altre volte invece è quella dimensione che accompagna lo sviluppo delle relazioni e dell’individuo. Quindi il bullismo è violenza in un rapporto di forza impari, con un soggetto o più che la agiscono e uno o più soggetti che la subiscono. Ma il rapporto impari non è sufficiente per definire il fenomeno, sono tre i requisiti che contemporaneamente occorre si verifichino affinché si possa parlare di bullismo. Il secondo è l’intenzionalità, l’atto violento deve essere voluto, cercato, consapevolmente inflitto. Il terzo ma non ultimo aspetto è quello della reiterazione, anche se sporadicamente l’azione violenta deve essere ripetuta per poter essere definita di bullismo. Rapporto di forza impari, intenzionalità, reiterazione.

Tecnicamente quindi l’episodio che si è verificato a Galatina, se fosse il primo ad essere stato compiuto da quel gruppo di giovani, potrebbe non essere propriamente un atto di bullismo. C’è la violenza agita nei confronti di una persona fragile, che l’ha subita dunque. E c’è l’intenzionalità, nulla che l’abbia scatenata se non la pura e macabra “gioia” di far male per il gusto di farlo. In assenza di altri fatti risaputi, manca perciò la reiterazione direte. Se qualcuno non avesse acceso la videocamera del cellulare probabilmente non si sarebbe trattato di bullismo, ma di un’azione isolata, per così dire di ordinaria delinquenza, non certo meno esecrabile e punibile.

Il bullismo è sempre stato, oggi il suo portato è ancora più devastante a causa della sua diffusione online. Happy slapping o cyberbashing è la definizione esatta del gesto compiuto ai danni del povero ragazzo in quel di Galatina pochi giorni fa. Questa modalità, tra le maggiormente diffuse, vede la perpetrazione di una violenza per lo più fisica o verbale, quindi offline, ma ripresa con mezzi tecnologici per poi essere diffusa online e raggiungere così una platea potenzialmente illimitata.

Nel cyberbullismo la reiterazione è nello strumento dunque, pubblicare e diffondere un contenuto online è come averlo pubblicato e diffuso tante volte quante sono le visualizzazioni, le reazioni e le condivisioni di “seconda mano”.

Va inoltre sottolineato che nel gruppo c’era anche una ragazza, studi ci dicono difatti che il bullismo online vede un’impennata del protagonismo femminile, le donne non solo tra le principali vittime dunque insieme a persone LGBTQI e con background migratorio.

Quant’è devastante il cyberbullismo nelle vite dei ragazzi e delle ragazze di oggi!? Avrete visto sicuramente “Il ragazzo dai pantaloni rosa” (se non lo avete ancora visto lo consiglio vivamente, anche se non l’ho apprezzato del tutto, ma non è questa la sede per un approfondimento, lo potete trovare su una nota piattaforma streaming), il suicidio purtroppo è una delle più estreme conseguenze della violenza online e offline, si stima che il 10% delle vittime di cyberbullismo in Italia cerchino di togliersi la vita (dati ISTAT), vale a dire circa 8.000 ragazzi e ragazze ogni anno. Nel caso di bullismo omofobico o per discriminazioni multiple l’incidenza del suicidio è 3 / 4 volte superiore alla media. Fa paura o no?

Che pena direte, che pena dico io ripensando a tutta questa vicenda, una pena che stringe il cuore non solo per il ragazzo vittima di violenza, primo pensiero di tutti e tutte, ma anche per quei ragazzi e ragazze che hanno compiuto la violenza, per le loro famiglie. Leggo che qualcuno ha già sbattuto i mostri in prima pagina, facendo nomi e cognomi. Si può?! Intravedo in questo la possibilità di un’azione legale.

Il mio approccio al bullismo è un approccio non stigmatizzante, lo faccio sempre presente, avendo a mente tanti modelli sbagliati visti nei contesti in cui ho operato. Il bullismo è un fenomeno socialmente determinato, frutto di un contesto che ha permesso che ciò avvenisse, sia esso la famiglia, la scuola, il territorio, la propria cerchia di amicizie, il web, … Possiamo trovare il capro espiatorio, il bullo da punire, ma questo non assolve chi è corresponsabile di tali azioni, che sono appunto socialmente condivise. A tal proposito consiglio il libro di Daniele Novara e Luigi Regoliosi ‘I bulli non sanno litigare’, che ci suggerisce il giusto approccio al fenomeno, che sicuramente deve essere prescrittivo e punitivo, ma non è sufficiente se non diventa sistemico e comunitario, cioè in certo senso partecipativo.

Il tenore di alcuni commenti che leggo sui social (o il fatto stesso di condividere i nomi dei ragazzi e delle ragazze autori di così ignobile azione) dà atto di quanto affermo. Da un lato dunque occorre interrogarsi sul modello che siamo (quanto contano le battute, magari dette a tavola tra le notizie di un barcone affondato e un caso di omofobia), dall’altro lavorare sul concetto dell’errore, perché tutti sbagliamo e abbiamo diritto a sbagliare, come dovremmo avere il diritto e il dovere di riparare a quanto erroneamente fatto. Il tema dell’errore è poi centrale nel mondo dell’online, che è onnivoro e trattiene tutto, ma nessuno è il proprio errore, dovremmo capirlo, siamo adulti. Quei ragazzi e quelle ragazze non sono “bestie” (così si legge in molti commenti), sono individui su cui investire azioni di recupero sistemiche. Attenzione a non cadere in dinamiche giudicanti, dietro a quei giovani ci sono famiglie come tante, non tiriamole dentro il devastante tritacarne del perbenismo. Tutti dentro o tutti fuori. La serie ‘Adolescence’ che in molti hanno visto, a mio avviso sottolinea un aspetto molto importante: il mestiere del genitore è un mestiere difficile, a volte le cose vengono bene, altre male. Non c’è una ricetta, si procede per tentativi, capitalizzando esperienze proprie e altrui, aggrappandosi ai valori.

Online si leggono già sentenze e facilonerie impressionanti sulle famiglie fragili che sono dietro a chi ha compiuto tali violenze, perché, chiedo, ci sono famiglie che non lo siano? Invece di sparare lapidari giudizi dovremmo tutti noi fare i conti con le nostre tante fragilità e ringraziare di averne.

Ho apprezzato un recente intervento del Sindaco sull’episodio che cerca di placare questa sete giustizialista e ricolloca l’episodio nella giusta dimensione. Occorre essere comunità e fare lo sforzo di non chiedere, ma di dare (dal lat. cum- munus, cioè cosa ognuno di noi porta in dono, nelle nostre espressioni autoctone quel “disobbligarsi” in cambio di qualcosa che si è ricevuto). Sicuramente queste famiglie non vanno lasciate sole e messe alla berlina, bensì sostenute nel processo educativo di cui tutti occorre che si facciano carico, sia le agenzie intenzionalmente educative che quelle non intenzionalmente educative: la comunità cresce e diventa migliore grazie a uno sforzo condiviso. Non ci sono i bravi e i cattivi figli, perché tutti possono essere bravi o cattivi, ma se i figli sono di tutti forse ci sentiremmo meno soli, impauriti e, perché no?!, un po’ incerti, che quando balla la terra sotto i piedi alla fin fine fa bene e ci spinge a diventare migliori.

Mi si consenta una chiosa: il problema, come dicevo sopra, è di contesto, anche la terminologia riflette lo sguardo non adeguato che abbiamo sulla tematica, in tutto il mio intervento ho parlato di gruppo di giovani, mai ho usato la locuzione “baby gang”, non v’è definizione più errata per definire il fenomeno, perché scarica il problema solo sui ragazzi e sulle ragazze che compiono la violenza, non dà conto invece del ruolo degli adulti e dei molti coetanei astanti, di chi tace e volta lo sguardo altrove, di chi, tanto per dirne una, non mette in discussione le proprie abitudini linguistiche, espressive. Facile puntare il dito senza interrogarsi.

Mi auguro, per concludere, che questo terribile episodio aiuti a riflettere e inneschi un cambiamento, prevalga la buona occasione non solo lo sconforto.

Massimiliano Martines

 

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